Vi avevo lasciato in sospeso in merito al mio percorso multidisciplinare. Questo perché il 29 maggio ho deciso di cambiarlo! So che può sembrare una pazzia, ma non ne ero affatto convinta, non mi piaceva la resa dei collegamenti tra le varie materie. Perciò ho "demolito" tutto e ieri mi sono dedicata alla completa riscrittura di questa maledetta tesina! Vorrei adesso il vostro parere, più che altro per avere un ulteriore conferma del fatto se sia coerente o meno nel suo sviluppo e, soprattutto, se vi viene un titolo più originale, perché dopo averla scritta mi sono sentita così svuotata che non ho avuto nè la forza di rileggerla per verificare eventuali errori, nè quella per trovare un titolo migliore!
Siete i secondi che la leggete, l'unica che sino ad ora l'ha letta è stata mia madre. Domani la manderò via mail ai prof per avere il loro appoggio, ma prima avrei fortemente bisogno della vostra "benedizione", perché mi sento insicura, forse perché non l'ho riletta, forse perché non sono entusiasta del titolo... non so.
Della parte in lingua inglese eventualmente non preoccupatevi: sostanzialmente dico, ampliando il discorso con la trama, quanto dico in italiano.
Un'ultima cosa: siate sinceri e schietti nel dare giudizi, come siete sempre d'altronde!
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“Il disagio
della civiltà”
Il dilagare della massificazione
La
civiltà, in tutti i tempi, impone dei sacrifici alla libertà dei singoli e dei
“costi” da pagare in termini sia di soddisfazione gratificante dei propri
desideri, sia di affermazione della propria individualità. Esiste un equilibrio
tra le due parti?
Premessa
Siamo
gettati in un mondo in cui contiguità e diversità si affermano simultaneamente,
con eccessi identitari e forme radicali di vicinanza e di estraneità. Un peso
schiacciante grava sull’individuo: viviamo nello stesso tempo una condizione di
estremo isolamento e di ferrea costrizione, corriamo il rischio di oscillare
vorticosamente fra la chiusura in noi stessi e la disarmata sottomissione a
un’alterità che ci opprime. Questo problema ci attraversa, in maniera
differente, da sempre: laddove la società si “civilizza”, si dota di strutture
che dovrebbero servirle a migliorare la vita di ogni singolo, si registra
esattamente un esito opposto. Tutte quelle novità introdotte, che sono volte al
bene, si rivelano essere deleterie per l’intero genere umano. Il dialogo “La
scommessa di Prometeo”, contenuto nelle “Operette morali” scritte dal poeta
italiano Giacomo Leopardi è molto esemplificativo: Prometeo e Momo fanno una
scommessa in merito al valore stesso del genere umano, che viene verificato in
tre stadi diversi di civiltà: una tribù selvaggia dell’America, una società
asiatica di cultura antica, ma lontana da quella occidentale, il cuore della
civiltà europea, cioè Londra. Ciascuna delle tre ricognizioni si dimostra
fallimentare: a qualsiasi livello di civiltà e in ogni condizione l’uomo è
crudele e inventa istituzioni crudeli; ciò che cambia con il progredire della
cosiddetta civiltà è solo il quoziente di infelicità, che va aumentando,
inesorabilmente.
È come
se la “regressione” fosse un momento predestinato, cui nessuna civiltà può
sottrarsi.
Latino
Non è un
caso che anche la civiltà latina, quella che Polibio aveva definito perfetta e
immune, seppur non in maniera definitiva, dalla degenerazione, abbia poi
vissuto dei momenti di “crisi” come quello iniziato nell’età neroniana e poi
culminato in quella dei Flavi. L’impero di Nerone (54-68), inizialmente
caratterizzato da un atteggiamento moderato anche grazie all’aiuto di eminenti
personalità come Afranio Burro e, soprattutto, Seneca, dopo solo cinque anni
vide emergere una linea autocratica assai vicina a quella di Caligola: in breve
tempo Nerone eliminò tutti i suoi
rivali, incendiò Roma, mise tutti contro di sé al punto tale da essere costretto
a togliersi la vita, minacciato dalle rivolte urbane e della provincia.
L’affermazione al potere di Vespasiano (69-79) a seguito di due anni di guerre
introdusse una nuova concezione del potere, legato non all’estrazione
gentilizia ma al carattere personale. Mentre quest’ultimo e, in seguito, il
figlio Tito (79-81) istaurarono governi che intendevano correggere gli eccessi
istrionici di Nerone, improntato quindi a economia, sobrietà ed efficienza,
cercando di ristabilire l’ordine e la legalità, il loro successore, Domiziano
(81-96), volle ripristinare un potere autocratico bandendo ogni opposizione e
critica al regime. Entro questo clima era nato, ad Aquino, il poeta satirico
Giunio Giovenale (50/65-130/140 c.a.), che proprio l’anno della fine del regime
di Domiziano si diede all’attività poetica, vivendo da cliens come il suo amico Marziale. Le sedici satire che
costituiscono la sua produzione risalgono perciò ai principati di Traiano
(98-117) e Adriano (117-138): il primo definito optimus princeps per la sua politica irreprensibile, fondata non
sull’accentramento dei poteri, ma sul coinvolgimento del Senato; il secondo,
con una condotta adeguata al predecessore in un primo momento, si rivelò essere
l’esatto contrario quando, alienandosi le simpatie del Senato e rimanendo
isolato, tentò di istaurate il culto della propria persona. Queste successioni
di potere, caratterizzate più per il loro lato negativo che per le brevi
parentesi positive, contribuirono sicuramente a mettere a soqquadro un’intera
società, provocando proprio quel degrado sociale e morale che Giovenale
denuncia nelle sue satire. Il poeta non comprende la realtà in cui vive e
condanna in blocco i comportamenti dei propri contemporanei. Egli ritiene di
essere testimone di una crisi morale profonda e immodificabile, che ha
investito la società romana conducendola in un abisso di corruzione e vizio. La
crisi si manifesta evidente, per Giovenale, a chiunque osservi i meccanismi e i
valori cui gli uomini di quel tempo hanno uniformato il proprio comportamento:
valori e meccanismi quali la ricchezza e le relazioni di natura economica. I
protagonisti dello sviluppo economico della società romana imperiale sono
soggetti che non corrispondono affatto al modello di dignitas sociale che Roma aveva elaborato e tramandato nel corso
delle generazioni: nella satira 1 (vv. 30-74) Giovenale, dichiarando di non
poter tacere, descrive la nuova composizione sociale, dai liberti agli
stranieri dediti al commercio, dai conquistatori di eredità agli avvocati ormai
sistematicamente impegnati nell’accusa di innocenti e nella pratica della delazione.
La sua è una prospettiva moralistica,
che ha come parametro di valutazione la tradizione repubblicana romana: ciò fa
intendere che, anche quando il poeta abbandona i toni dell’indignatio e sceglie una maniera comunicativa più ironica, la sua
chiave di lettura sulla realtà è anacronistica, poiché non tiene conto delle
varie modificazioni sociali in relazione allo sviluppo economico e alla nascita
di nuovi valori di comportamento e, soprattutto, che egli non prospetta che
alcun tipo di cambiamento, in senso positivo, possa avvenire.
Filosofia
Sono
passati tanti secoli, si sono succedute tante civiltà, ma non è difficile
visualizzare in ognuna di esse la medesima situazione: a una fase di ascesa, di
sviluppo, durante la quale esse sono giunte al culmine, è sempre succeduta una
fase di declino, di crisi. Molti
filosofi hanno cercato di trovare un modo per non dovere subire gli effetti
della regressione, come il filosofo
tedesco Hegel (1770-1831), che vedeva nello spirito
del mondo quell’unico principio spirituale e razionale che dominava la
storia, la quale era perciò teleologicamente guidata verso l’attuazione dello
scopo universale del divenire scopo, cioè la definitiva realizzazione della libertà
(“Lineamenti di filosofia del diritto”;
“Lezioni di filosofia della storia”); o come il suo connazionale Nietzsche
(1844-1900), che, condannando la morale poiché assoggetta la vita a valori che
afferma essere trascendenti, sostiene che vi è bisogno di una nuova “chimica delle idee e dei sentimenti” (“Umano, troppo umano”). Il padre della
psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), ha cercato di rintracciare, invece, da
cosa scaturisce il disagio dell’individuo e lo ha individuato nella civiltà. Nel saggio del 1929 “Il disagio della civiltà”, egli scrive
che ha inteso quest’ultima da una parte come necessaria, come fonte di
sicurezza dell’uomo, dall’altra come origine di sofferenza e di infelicità. Non
vi sono alternative tuttavia a questi effetti: sono il prodotto di “Eros e
Thanatos”, le parti costitutive dell’uomo. La civiltà ha perciò il compito di
controllarli e lo fa imponendo sacrifici alla libertà dei singoli e dei costi
da pagare in termini di soddisfazione gratificante dei propri desideri. Per
Freud non vi sono alternative alla civiltà…
“La sua essenza [della civiltà]
consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro
possibilità di soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del
genere. Quindi il primo requisito della civiltà è la giustizia, cioè che
l’ordine statuito non sarà infranto, a favore di nessuno […] la libertà
individuale subisce delle limitazioni ad opera dell’incivilimento e la
giustizia esige che queste restrizioni colpiscano tutti. […] E’ impossibile
ignorare in qual misura la civiltà sia costruita sulla rinuncia pulsionale,
quanto come abbia come presupposto il non soddisfacimento (repressione,
rimozione, o che altro?) di potenti pulsioni. Questa frustrazione civile domina
il vasto campo delle relazioni sociali degli uomini.”
Freud
condivide con Hobbes il principio “Homo homini lupus”. L’uomo vede nell’altro
uomo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a
sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttare la forza lavorativa
senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente, psicologicamente, a togliere
all’altro il possesso dei propri beni, a negargli di mostrare la sua vera
“essenza”.
“La sofferenza ci minaccia da tre
parti: dal nostro corpo, che, destinato a perire e a disfarsi, non può eludere
quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno che
contro di noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive; e
infine, dalle nostre relazioni con altri uomini. […]La correlazione tra amore e
civiltà cessa, nel corso dell’evoluzione, di essere univoca. Da un lato l’amore
si oppone agli interessi della civiltà; dall’altro lato la civiltà minaccia
l’amore con gravi restrizioni.”
Freud da
una parte non esclude che la civiltà possa in futuro soddisfare meglio i nostri
bisogni ed essere meno repressiva; dall’altra appare abbastanza scettico sulla
possibilità che la civiltà possa modificare l’assetto repressivo e di controllo
che ha costruito nei secoli e ipotizza che si possa trattare solo di questione
di adattamento e di abitudine alla inevitabilità del sistema civiltà-disagio.
“Possiamo aspettarci di ottenere
cambiamenti nella nostra civiltà con l’andare del tempo, tali che soddisfino
meglio i nostri bisogni e sfuggano a questa critica. Ma forse ci abitueremo
anche all'idea che ci sono difficoltà inerenti all’essenza stessa della civiltà
e che non cederanno di fronte ad alcun tentativo di riforma.”
Lo
sviluppo della famiglia e del lavoro, fondamenti della civiltà, esigono
un’evoluzione della rinuncia alla libera soddisfazione delle pulsioni e la
sublimazione, quindi un aumento del disagio e dell’infelicità.
Italiano
L’industrializzazione,
il concentrarsi della popolazione nelle grandi città, la crescita del
proletariato mutarono il volto della società europea in misura superiore a ogni
precedente epoca storica. Negli ultimi decenni del secolo, questi cambiamenti
delinearono progressivamente le caratteristiche della cosiddetta “società di massa”, espressione con cui
ci si riferisce prima di tutto al fatto
che i protagonisti delle grandi svolte storiche si presentavano sempre più come
collettività: popoli, classi sociali, gruppi di mestiere, comunità religiose
apparivano sempre più consapevoli dei loro interessi comuni e delle loro
aspirazioni, pronti a battersi unitariamente per difendere i primi e realizzare
le seconde. Dal punto di vista politico, la massificazione delle società industriali
sviluppate consiste in quei processi che portano ad allargare la partecipazione
alla politica. In questa definizione c’è un’accezione negativa, in quanto si
allude a una partecipazione che in linea di tendenza non responsabilizza il
singolo. La cosa è chiara nei regimi totalitari del Novecento, dove la
partecipazione fu forzata, imposta dall’alto, e la volontà di costruire
un’ordinata ed efficiente macchina statale provocò l’inquadramento rigido dei
singoli; ma anche nelle società di massa democratiche la partecipazione è
spesso formale, limitata alle consultazioni elettorali, e si osserva una
progressiva chiusura nell’ambito e negli interessi privati. Da un punto di
vista più sociologico, invece, si definisce di massa quella società in cui il
livello di vita media si alza- per l’aumento dei redditi e per forme di
redistribuzione della ricchezza- e molti cittadini possono accedere a beni
prima a loro preclusi. Anche qui c’è una sfumatura negativa, o comunque
critica, perché il termine massificazione
è diventato sinonimo di omologazione, di appiattimento: tutti più ricchi,
tutti con i gusti che si somigliano. Questo processo, che da una parte denota
lo sviluppo della società, dall’altra provoca proprio quel disagio di cui parlava Freud, che però risulta ulteriormente
accentuato in quanto l’avvento della società di massa è stato un fenomeno che
si è esteso rapidamente e senza alcun freno, al punto tale che anche oggi
possiamo dire di essere sommersi da essa, di ritenerla una cosa normale
perché fa parte del nostro modo di pensare, del nostro modo di porci al
mondo.
Eugenio
Montale (1896-1981), uno dei principali poeti italiani del Novecento, non è
affatto riuscito ad inglobare dentro di sé questa nuova realtà. Nella raccolta “Le
occasioni” (1939) egli crede che la letteratura sia l’ultima difesa e
l’ultimo privilegio per una generazione di autori che trova nella religione
della cultura e dell’arte e nella sublimazione che essa comporta l’unico
risarcimento possibile. Nel 1927 egli si era trasferito a Firenze, che
rappresenta per lui la culla dell’Umanesimo, una sorta di patria o di
cittadella delle lettere e della cultura, intese come valore supremo da
difendere contro l’ignoranza e la rozzezza del regime fascista, ma anche contro
il dilagare della civiltà di massa e dei suoi automi. Nel mottetto “Addii,
fischi nel buio, cenni, tosse” questo è ben evidente: alla stazione un
treno parte portando via la donna amata (Clizia), confusa tra gli uomini-massa. Il treno indica la
minaccia della modernità, inconciliabile con l’amore e qui rappresentata dalla
alienazione degli automi. Il legame
di autenticità fra il poeta e la donna e il valore di distinzione e di
privilegio che esso assume nell’ideologia montaliana sono chiaramente
contrapposti alla società di massa. Tuttavia essi sono tutt’altro che sicuri:
basta un attimo perché si dissolvano. Qui la partenza della donna li pone in
discussione, ma resta comunque la possibilità che l’intesa fra i due rimanga,
comprovata dalla probabile esperienza comune della sensazione di orrore e di
morte comunicata dal rumore del treno. La terza raccolta di Montale, “La bufera e altro” (1856) registra un
ripiegamento ulteriormente pessimistico: l’allegorismo cristiano, presente
nella parte iniziale del libro, entra in crisi in quella centrale. I valori
etici e religiosi di Clizia sembrano anacronistici negli anni di delusione
postbellica e dell’affermazione di una società di massa ancora più vasta e
omogenea di quella dell’età fascista. La stessa sopravvivenza della poesia appare
in dubbio; Clizia, infatti, è costretta a una fuga nell’oltrecielo dei valori. Al posto delle allegorie umanistiche e
cristiane, ormai improponibili, troviamo così allegorie di animali che indicano
la strada della salvezza non più nella cultura, nell’alto, nei valori della
donna Cristofora, ma in basso, nel
mondo degli istinti e dell’eros, nel fango della vita concreta. Alla fine,
nelle “Conclusioni provvisorie” che
chiudono il libro, prevale la convinzione che la crisi della civiltà
occidentale e dei suoi valori sia irreversibile e che una catastrofe epocale
stia per distruggerla. La stessa poesia appare ormai improponibile: di qui il
silenzio poetico che inizia nel 1954 e termina nel 1964, quando, a seguito
della morte della moglie, Montale è spinto a scrivere per rielaborare il lutto. Da qui nasce la raccolta “Satura” (1971), in cui prevalgono il sarcasmo, l’ironia, la
parodia, la satira. La moglie, Drusilla Tanzi, viene celebrata per la sua
capacità di adattarsi a quel trionfo
della spazzatura che è ormai la civiltà contemporanea: non a caso è
soprannominata Mosca. Ella sa
orientarsi istintivamente nell’informe quotidiano, senza farsi ingannare dagli
astratti valori degli intellettuali- la cultura, la storia, la poesia,
l’umanesimo- e anzi concentrandosi sulla nuda esistenza, come puro fatto fisico
o materiale. Mosca ha insegnato al poeta non solo a sopravvivere acquattandosi
come un insetto negli interstizi dell’esistenza quotidiana, ma anche a
difendersi attraverso l’ironia, il sarcasmo, la demistificazione delle
ideologie e degli autoinganni della società e della cultura. Di qui
l’autocritica del poeta, che in passato, invece, aveva puntato sui valori e
sulle illusioni tipiche degli intellettuali. Nell’ultima fase della sua vita
Montale perviene ad una concezione amara e pessimistica della società attuale,
dominata dalla tendenza allo spettacolo e al consumismo, di cui sono vittime
anche i giovani. Nel 1975, in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel,
egli tiene un discorso (“E’ ancora
possibile la poesia?”) in cui si chiede: “nell’attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia
nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può
essere la sorte della poesia? […]non solo la poesia, ma tutto il mondo
dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è
strettamente legata alla condizione umana [...] Inutile dunque chiedersi quale
sarà il destino delle arti. È come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani
magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si
dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può
essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi)."
Inglese
Una
visione ancora più pessimistica del disagio
della civiltà è quella fornitaci dallo scrittore inglese George Orwell
(1903-1950) in uno dei suoi più celebri romanzi, 1984. Il titolo indica l'anno
in cui si svolgono i fatti che sono argomento del romanzo. L'autore ricava tale
data semplicemente invertendo le due ultime cifre dell'anno, il 1948, in cui
redasse il secondo e ultimo abbozzo del libro. Evidentemente, a Orwell il 1984
sembrava abbastanza lontano per potervi situare un racconto fantastico, ma
anche abbastanza vicino per potervi inserire fatti e situazioni, personaggi e
una forma di linguaggio che nel 1948 apparivano tutt'altro che irreali, tanto
che il romanzo fu subito accettato con favore dal pubblico anche per il suo
carattere di "attualità". Quella dipinta dall’intellettuale inglese
può essere definita una realtà distopica,
che minacciava l’umanità in quanto tale riducendo gli individui o a mere
macchine non pensanti agli ordini del partito o a ribelli da riconvertire,
mediante un tremendo lavaggio del cervello, e, in seguito, vaporizzare.
George
Orwell was a prolific book-reviewer, critic, political journalist and
pamphletter in the tradition of Swift and Defoe, and is acknowledged as one of
the most remarkable writers of the 20th century. Indebted to Dickens
in the choice of social themes and the use of realistic and factual language,
he conveyed a vision of human fraternity and of misery caused by poverty and
deprivation. He insisted on tolerance, justice and decency in human
relationships, and warned against the increasing artificiality of urban
civilization. Above all he presented a devastating critique of totalitarianism,
warning against the violation of liberty and helping his readers to recognize
tyranny in all its forms. He expressed it in his last book: “1984”. Orwell defined it as “a novel about the future, in a sense a
fantasy, but in the form of a naturalistic novel”. The title itself, which
reverses the last two figures of its year of composition, suggests that the
author’s target was to attack present society as much ad to warn about the
future. The novel describes a future England, no longer the head of an Empire,
but an outpost of Oceania, a vast totalitarian system including North America
and the British Empire, and extending over a third of the globe. The work is
divided in three parts: the first part introduces the main character, Winston
Smith, in the context of a regimented, oppressive world; the second part
describes his love for Julia, and the temporary happiness their relationship
brings to both; the third part deals with Winston’s imprisonment and torture by
the Thought Police, and the final loss of his intellectual integrity.
Every
detail conveys the idea of a world in which the individual has no place, a
society where every aspect is subordinated to the state: the slogans, the
posters proclaiming “big brother is
watching you”, the telescreen in each room, the Two Minutes Hate, the perpetual state of war, the gradual
introduction of Newspeak, the
official language whose lexis is so limited that people find it impossible to
express their own ideas. Since its original publication in 1949 the book had
aroused extraordinary interest; it has been filmed, dramatized, adapted for
television and translated into many languages. It has given the term “Orwellian” to the English language ad a
word denoting nightmare oppression and thought control, a vision which becomes
an essential part of the reader’s intellectual journey.
Conclusione
La “distopia critica” di Orwell
metteva in evidenza non solo il disagio
provocato da parte dei regimi totalitari a tutta la gente coinvolta, ma
prospettava un aumento del controllo da parte delle istituzioni, una sorta di civilizzazione forzata che, servendosi delle debolezze della massa, avrebbe fatto sì che nessuno
avrebbe guardato più il proprio interesse, che nessuno avrebbe più avuto
coscienza critica.
Sarebbe alquanto pessimista
sostenere che le previsioni di Orwell si siano avverate; ciononostante il
valore della sua letteratura rimane intatto, soprattutto se paragoniamo molti
dei suoi giudizi circa la deriva che avrebbe preso l’umanità di fronte al
potere rispetto alla realtà attuale. Alcune contemporanee forme di “non
pensiero” e di massificazione sembrano, infatti, perfettamente in linea con
altrettanti fenomeni presenti nella società orwelliana. Basta prendere come
esempio la famigerata neolingua descritta
nel romanzo come unico e semplificato modo di esprimersi imposto dal partito
per impedire sempre più un pensiero complesso da parte degli adepti: in ambito
pubblicitario o, comunque, televisivo, tra i giovani- e non solo- si tende a
trasmettersi messaggi formati da
codici sempre più simili a quelli dei codici numerici. Non è un caso che l’uso
del congiuntivo stia sparendo: questo tempo verbale è più difficile da
imparare, ma, soprattutto, arricchisce l’io e lo rende capace di esprimersi
meglio, cosa che la massificazione
non vuole affatto.
Guardare con un occhio critico e
pessimista, tuttavia, non ha mai risolto nulla. Perciò l’uomo è sì politikàn
fjon, cioè un "animale sociale", come ha
scritto Aristotele, che vive nella società ed è lui stesso faber di civiltà sempre più avanzate; al contempo è anche un essere pensante, come affermava Cartesio
(“Cogito ergo sum”), e ha una sua
individualità da affermare e delle inclinazioni che lo rendono unico, diverso
dagli altri ma non per questo inutile. Egli
deve accettare che è necessario che anche l’altro
sia autonomo per poter essere se stesso, perseguendo, contemporaneamente, la
realizzazione di sé e l’autoaffermazione.
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Grazie a quanti avete avuto la pazienza (e spero anche la voglia!) di arrivare fino a qui!