Prima del
Novecento l’uomo aveva focalizzato prevalentemente la sua attenzione sul
rapporto tra se stesso e il mondo esterno, senza mai porsi una domanda
essenziale: “Chi sono? Sono chi credo di essere o chi appaio?”
Un primo sviluppo
del problema si riscontra nella letteratura e, in particolare, uno degli
scrittori più attivi sul tema è stato Luigi Pirandello. Infatti, sin
dall’inizio della sua attività critica egli ha colto, rappresentato e
teorizzato la sua singolare coscienza delle molteplici sfaccettature
dell’esperienza e del soggetto.
Questa
rappresentazione poliedrica dell’interiorità dell’uomo viene ancor più
concentrata con l’avvento del cinema, che, trasformandosi velocemente in una
vera e propria industria, si diffonde in Europa e negli Stati Uniti,
sviluppando continue sperimentazioni di generi, soggetti, linguaggi e tecniche.
Pirandello è forse
tra i primi autori del diciannovesimo secolo a scrivere seriamente e con
chiaroveggenza sull’aspetto nascente dell’industria cinematografica. Se egli
inizialmente si schiera contro il “mostro cinematografico”, poiché lo considera
un’arte che divora la realtà e rischia di divorare l’artista; in seguito
ribalta la sua opinione affermando che è proprio grazie al cinema che si può
arrivare in maniera più facile e completa ad una “visione del pensiero”. Egli
sostiene, infatti, nel suo articolo “Se
il film parlante abolirà il teatro”, che il cinema si deve liberare della
letteratura e immergersi nella musica…
<< Io dico la musica che parla a tutti senza
parole, la musica che s’esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia,
potrà essere il linguaggio visivo. Ecco: pura musica e pura visione. I due
sensi estetici per eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un godimento unico:
gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la
bellezza e la varietà dei sentimenti, che i suoni esprimono, rappresentate
nelle immagini che questi sentimenti suscitano ed evocano, sommovendo il
subcosciente che è in tutti, immagini impensate, che possono esser terribili
come negli incubi, misteriose e mutevoli come nei sogni, in vertiginosa
successione o blande e riposanti, col movimento stesso del ritmo musicale.
Cinematografia, ecco il nome della vera rivoluzione: linguaggio visibile della
musica. >>
Nella produzione di un film il
regista non sempre si rifà ad un autore o ad un modello ben preciso, ma è
sicuramente grazie all’apporto della letteratura e di autori come Pirandello,
che si è giunti a tecniche di ripresa in grado di rappresentare come reale ciò
che reale non è e, soprattutto, a costruire un personaggio con il quale ogni
uomo può identificarsi.
Martin Scorsese è
uno dei registi che, probabilmente senza consapevolezza, si rifà alla lezione
pirandelliana.
Nato a Flushing
(Long Island), da genitori entrambi operai ed entrambi figli di immigrati
siciliani arrivati negli Usa nel 1910, viene istruito secondo i principi della
morale cattolica. A 14 anni, sente la vocazione ed entra in seminario, ma
cambia immediatamente idea dopo sei mesi. Continua la sua istruzione scolastica
iscrivendosi alla New York University, che lo formerà cinematograficamente.
Golden Globe, Oscar,
César, David; non c'è premio che non gli sia stato conferito. Considerato un
autore sacro e appassionato, ma anche passionario, Scorsese si distinse
originariamente per la bizzarria con la quale colpiva lo stomaco dello
spettatore, costruendo una filmografia da adorare, un cinema delle solitudini
laceranti, un cinema sulle ossessioni, sulle pulsioni autodistruttive.
È senza dubbio uno
dei più grandi regista contemporanei.
Uno dei suoi film nel quale è
possibile rintracciare caratteristiche prettamente pirandelliane è “Shutter
Island”, da lui diretto e prodotto nel 2010.
La trama, complessa ed
avvincente, nonché ricca di diversi livelli di lettura, è la riduzione
cinematografica dell’omonimo romanzo dello scrittore Dennis Lehane. In
confronto al macrocosmo nel quale solitamente getta lo spettatore, quello di
Shutter Island è un relativamente piccolo anfratto della mente, nel quale il
regista sfrutta l'impianto del thriller per parlare e rappresentare visivamente
i recessi più oscuri del cervello, dove si annidano sogni e speranze, traumi e
violenza.
Il film è ambientato nel 1954 e
racconta la vicenda di due agenti federali, Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e
Chuck Aule (Mark Ruffalo) che sbarcano a Shutter Island, un'isola a largo delle
coste del New England interamente adibita a manicomio criminale, per risolvere
il caso di una paziente di nome Rachel Soldano (Emily Mortimer) scomparsa
misteriosamente. A causa di una violenta tempesta Daniels, che vorrebbe
rientrare a Boston per redigere un rapporto contro l'atteggiamento del dottor
Cawley, il direttore del manicomio, non può abbandonare l'isola ed costretto a
continuare l'indagine. In un crescendo claustrofobico di paranoia Daniels, che
è vittima di emicranie e di incubi ricorrenti, si trova ad indagare sull'intera
struttura ospedaliera di Shutter Island, cominciando a dubitare di tutto e di
tutti.
Per analizzare correttamente la
pellicola è necessario scomporre i suoi molteplici strati, la cui superficie più
esterna è costituita dalla trama, propria del romanzo stesso di Lehane, ed ha
un impianto narrativo classico e tendenzialmente lineare. Intorno a questo
soggetto, quindi, Scorsese costruisce un film dalla struttura formalmente assai
classica che parte da un enigma, si sviluppa in un'indagine e termina con un
epilogo chiarificatore, senza lasciare nulla al caso. La progressione narrativa
offre un'alternanza dei ritmi e dei tempi che preparano le atmosfere, dalla
vaga suggestione gotica, la caratterizzazione del protagonista intorno al quale
ruota l'intera vicenda, le pause di riflessione e i momenti di azione, la
costellazione di indizi e la soluzione dell'enigma.
Tuttavia sarebbe riduttivo
arrestarsi a questo primo stadio di lettura, poiché, nonostante l’epilogo si
possa intuire già a metà film da uno spettatore più attento, Scorsese è in
grado di rielaborare l’ordinario e di trasformarlo in qualcosa di straordinario;
di costruire un lavoro equilibrato, la cui armonia e completezza garantiscono
un ritmo narrativo in continuo crescendo, che permette alla regia di creare una
tensione costante ed un'angoscia palpabile sul pubblico. In questa dimensione
estetica la sua regia si può analizzare sotto due differenti profili. Il primo
riguarda le scelte tecniche volte a coinvolgere lo spettatore, calandolo nella
suggestione delle atmosfere tetre ed angoscianti. Il secondo profilo è invece
di carattere più prettamente simbolico: la regia sposa la storia narrata
valorizzandola attraverso il ricorso agli archetipi propri di quella
simbologia, che permea l'intero tessuto narrativo, e li accompagna con dei
movimenti di camera che si rendono interpreti delle situazioni vissute dai personaggi.
Martin Scorsese è sempre stato un
regista creativo ed innovativo, la cui arte si è districata nel corso degli
anni, passando di opera in opera, ricercando nuovi modelli narrativi, capaci di
uscire dalla gabbia degli schemi classici e atti a valorizzare ai massimi
livelli il talento creativo del regista, che fossero un tramite emotivo diretto
fra la storia che si racconta e il pubblico. Egli alterna con sapienza
inquadrature panoramiche e campi lunghi a lente soggettive che introducono il
protagonista, e il pubblico con lui, all'interno degli ambienti. In questo caso
l'angolo dell'inquadratura è sempre spostato dal basso verso l'alto, suggerendo
così un senso di incombenza e di minaccia tanto dei luoghi quanto delle persone
e rafforzando il senso di claustrofobia già insito nelle scenografie.
Analizzando il film sul piano del
significato, il mondo che Teddy Daniels sembrerebbe scoprire a Shutter Island,
non è quello formato da una società bigotta e moralista, bensì un girone
dell'inferno in cui il governo porta avanti esperimenti segreti sull'essere
umano, nascondendosi dietro la facciata di un ospedale psichiatrico criminale.
Gli elementi che entrano in gioco sono tantissimi: l'eugenetica, il nazismo, il
comunismo, la scienza che assurge a religione, il lavaggio del cervello, la
manipolazione delle coscienze. Quello che resta, però, una volta svelato il
mistero è un altro elemento: la dicotomia fra la realtà e la percezione della
stessa.
Il percorso cui Scorsese invita
lo spettatore attraverso l'indagine svolta da Teddy Daniels è un viaggio all'interno
di un labirinto di paure.
Così come Freud spiegava la
divisione della psiche umana in conscio, preconscio e inconscio attraverso
l'immagine dell'iceberg in cui la parte emersa, visibile a tutti, è il conscio,
la linea di galleggiamento è il preconscio e la parte sommersa, la più ampia ed
imperscrutabile, è l'inconscio; nel film Laddies, la nemesi di Daniels, si
nasconde nell'impenetrabile blocco C, una fortezza situata in cima alla
scogliera, con interni tetri, imperscrutabili e labirintici: come una forma di
protezione dell'intima identità dell'individuo.
Un altro simbolo
chiave del film è rappresentato dal faro, fonte di luce che avverte i naviganti
dell'incombente pericolo e spezza l'inganno del buio della notte; non è un caso
che la soluzione degli enigmi che tormentano Daniels si celi al suo interno.
Esso si trova a livello del mare, ossia è sul limen fra l'inconscio e il
conscio, non è solo una luce nelle tenebre, ma è un filtro, la transizione fra
le due istanze psichiche.
Attraverso una ricerca visiva
accuratissima, Martin Scorsese sposa la storia narrata con le immagini. La
suggestione è coronata da una vastità di dettagli che spaziano dalle visioni
cimiteriali ad una cripta che diviene riparo nella tempesta, alle luci che sono
così bianche da accecare, al sangue di un rosso vermiglio, così tipico della
filmografia di Scorsese, che si alterna al rosso delle fiamme e al grigio della
cenere, saloni austeri e ricchi di decori cupi estremamente gotici, sotterranei
umidi e minacciosi dalla struttura labirintica, catene e celle comuni in cui i
pazienti sono imprigionati completamente nudi, una scala a chiocciola che
conduce alla verità. I flashback si confondono in deliri onirici di una forza
straordinaria, dove la leggerezza dei fogli che svolazzano nella stanza del
colonnello delle SS di Dachau è immediatamente compensata dal dettaglio di un
piede che schiaccia a terra una pistola, dove il dolore per la perdita della
moglie si compensa in un abbraccio languido, l'orrore dell'omicidio si cancella
nel sorriso di un'apparenza di normalità quotidiana, così artefatta quanto lo è
il fumo che viene riassorbito dalla sigaretta che lo sprigiona. Una suggestione
“gotica” mai fine a se stessa e ricca di indizi.
Ma non è alla prevedibile
soluzione dell'enigma, che Scorsese vuole condurre lo spettatore, né al troppo
facile ribaltamento dei ruoli in base al quale tutti coloro che appaiono essere
dei mostri in realtà sono solo delle persone che stanno facendo di tutto per
aiutare il protagonista.
La terapia psicanalitica ha avuto
successo e Daniels ormai ha preso coscienza di sé e del proprio passato. I
medici hanno conseguito il loro scopo istituzionale, ossia guarire il paziente.
Il cervellotico “gioco di ruolo” creato dal dottor Cawley ha funzionato ed ha
obbligato l'Io del paziente ad ammettere ciò che si era nascosto nei meandri
del suo Es. Ma Daniels non accetta la propria guarigione: egli si definisce un
mostro per non essere stato capace di comprendere a fondo lo stato psicologico
della moglie e si fa carico della responsabilità della morte dei suoi figli,
benché non sia stato lui ad ucciderli. In realtà egli non si è macchiato di un
crimine come quello che già si rimprovera per la strage dei nazisti nel campo
di Dachau. Egli ha ucciso sua moglie, ma non l'ha assassinata, l'ha liberata o,
in un'ottica più confacente al quel
determinato contesto storico e culturale, l'ha giustiziata. La guarigione lo obbliga
ad accettare quella realtà senza più rifugiarsi all'interno di un labirinto di
paure e di menzogne. Ma il dolore per lui è insopportabile, al punto di
fingersi ancora malato e di sottoporsi ad un intervento di lobotomia, che in
questo caso si profila come una rimozione chirurgica della sofferenza. In questa
ottica la verità non è un bene e la cura stessa è un male.
La cura comporta
l'accettazione di una realtà che il paziente rifiuta e così si trasforma in
violenza psichica, in gabbia per l'essere straordinario che deve essere
ricondotto all'ordinario, il soccombere della fantasia di fronte alla realtà,
conformazione dell'anticonformista, riconduzione del diverso all'uguaglianza.
Alla fine
l'indagine compiuta da Scorsese è quella sulla dicotomia fra la realtà e il
modo in cui essa è percepita e filtrata.
Il mondo visto da
un folle è forse meno reale di quel mondo che vedono le persone
"normali"?
Scorsese indaga
sulle lacerazioni interne all'animo dell'uomo prodotte dalla necessità di dover
scegliere fra ciò che si desidera e ciò che si deve fare, fra il bene e il
male, fra il giusto e lo sbagliato. L'uomo è combattuto, dilaniato e
sofferente.
La lobotomia è una
sconfitta per i medici, ma è la scelta di Daniels. E qui è in gioco un
principio etico superiore: il diritto di disporre di se stessi. Il diritto di
scelta del paziente è stato violato dai medici che lo hanno obbligato a
guarire. L'uomo non ha più il diritto di scegliere che cosa sia meglio o peggio
per lui: è la società ad imporgli quello che essa reputa essere la cosa
migliore.
L’enorme
contributo di Pirandello si riscontra proprio facendo l’analisi di una
pellicola. Nel caso di “Shutter Island”, ad esempio, è possibile rintracciare
analogie sia con le tecniche narrative utilizzate dallo scrittore agrigentino,
sia con le tematiche da lui trattate nelle sue opere.
Dal punto di vista
della tecnica la somiglianza si può riscontrare, prima di tutto, nelle
inquadrature, tendenti ai primi piani e alle riprese dal particolare ad una
visione più generale dell’ambiente; inoltre, nel vasto utilizzo del monologo,
che avviene ad alta voce ma ha le medesime caratteristiche del monologo
interiore dei personaggi pirandelliani.
Analizzando il
piano del significato, è possibile mettere in evidenza soprattutto due
tematiche, molto care a Pirandello e che vengono fuori nel film in maniera a
dir poco lapalissiana, ossia il conflitto realtà-apparenza e la follia, due
motivi tra loro interdipendenti, riscontrabili principalmente in due sue opere:
“Uno, nessuno, centomila” e “Enrico IV”.
Il conflitto
realtà-apparenza rappresenta il filo conduttore del film e del romanzo “Uno,
nessuno, centomila”.
Vitangelo Moscarda
mette in dubbio se stesso così come Teddy Daniels inizia a dubitare di sé,
confinando così entrambi, in maniera diversa, con la pazzia.
“la
realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e
non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è
realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non
nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto. […] Io mi
costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto.”
Vitangelo
Moscarda, prima di guardare, come se fosse la prima volta, la sua immagine
riflessa, si era crogiolato nell’opinione che gli altri avevano di lui senza
riflettere sull’enorme differenza tra ciò che si è realmente e ciò che si
appare, arrivando a dubitare di essere “un” individuo, distruggendo tutti gli
stereotipi creati su di lui e diventando un “nessuno” e giungendo alla
conclusione che era “centomila”, perché ognuno, compreso egli stesso, avevano
un’opinione diversa su chi lui fosse. Egli viene considerato pazzo nel momento
in cui, per annientare le varie opinioni che tutti si erano fatti di lui,
compie degli atti, più o meno clamorosi, totalmente fuori dagli schemi entro i
quali egli aveva vissuto fino a quel momento.
Teddy Daniels
crede di essere “un” agente federale mandato sull’isola per risolvere il caso,
ma, procedendo con le indagini, inizia a dubitare di sè e, in preda alla
confusione, perde se stesso, diviene un “nessuno”, infine capisce di essere
stato, e di essere, “centomila”, perché è stato un soldato liberatore a Dachau,
un padre e marito affettuoso, un agente federale, un pazzo rinchiuso in un
manicomio.
I tormentati
pazienti dell'istituto sono presenze inquietanti la cui follia è spesso la
visione più “lucida” della realtà con cui Teddy viene a contatto nel corso del
film. Eppure, come fare a rimanere lucidi quando si è circondati da folli? Come
poter essere certi di non aver varcato quella sottile linea che divide la
sanità mentale dalla pazzia?
Pirandello scrisse
“Trovarsi davanti a un pazzo sapete che
significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto
avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre
costruzioni”.
Un prototipo di
pazzo è fornito da Pirandello anche nella sua opera teatrale “Enrico IV”.
Così come il
giovane nobile protagonista che, durante una cavalcata in maschera era caduto
da cavallo mentre stava impersonando il
personaggio di Enrico IV e, battuta violentemente la testa, si era risvegliato
credendo di essere veramente l’imperatore di Germania, assecondato da parenti
ed amici, che allestiscono la sua villa come fosse la reggia del sovrano; così
anche Teddy Daniels si è creato una doppia personalità per proteggersi dalle
brutalità commesse.
Il momento in cui
il dottor Genoni decide di inscenare una farsa per far rendere conto al
protagonista di non essere Enrico IV, è paragonabile al gioco di ruolo che il
dottor Sheehan crea per far tornare alla realtà Daniels, ossia Andrew Laeddis.
L’Enrico IV è un
testo molto denso, che esprime la convinzione che tutti siano pazzi e che la
pazzia sia una scelta quasi obbligata dalla necessità di avere un posto in un
mondo che non è fatto per noi : non a caso Enrico IV affermerà, parlando con i
suoi servitori, di aver finto di essere ancora pazzo perché, rinsavito, aveva
scoperto amaramente di essere arrivato “con una fame da lupo ad un banchetto
già bell’e sparecchiato”, riferendosi a quei dodici anni mai esistiti per lui e
goduti dagli altri . La decisione, dunque, di ritornare nel limbo - prigione
della pazzia è dettata dalla constatazione che nel mondo non c’è più posto per
lui . Enrico IV, così, si può leggere come la tragedia dell’emarginazione umana
in un alternarsi conscio di finzioni che coinvolge lo spettatore come di fronte
ad un gioco di specchi .
Allo stesso modo
anche Andrew Laeddis decide di rimanere Teddy Daniels. L’ultima battuta da lui
pronunciata è: "Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da persona
per bene?"